metafisica della poiesixCon la metafisica di Platone si ha l’equiparazione della cosa all’ente, perché si ha la contrapposizione della cosa al niente, al μὴ ο̉́ν: dire che il qualcosa, τό τι, si contrappone al niente, μὴ ο̉́ν, per Platone è lo stesso dell’ente, τὸ ο̉́ν, che si contrappone al ni-ente, μὴ ο̉́ν.
Se poi verifichiamo cosa è per Platone l’ente troviamo lo stretto rapporto tra ente e cosa: l’ente è “ciò” che non è un niente, il “ciò” è il τι, il qualcosa.
Ora, nel pensiero di Platone la cosa è certamente legata all’essere, ossia la cosa “è”, ma tale legame non è eterno, non è quindi necessario. La cosa si trova fra l’essere e il niente, contesa da entrambi.
La contesa in greco si dice ε̉́ρις, mentre έρίζειν è il contendere dei contendenti, il dibattersi del conteso tra i contendenti. Platone può allora dire che la cosa è ε̉παμφοτερίζειν, il dibattersi tra l’uno e l’altro, tra l’essere e il niente[12].
Ma la sfera di questo dibattersi per Platone non è oggetto dell’ε̉πιστήμη, la quale ha come oggetto l’ente eterno ed immutabile, l’ente che sempre “è” senza alcuna contesa; la dimensione della contesa tra essere e niente appartiene alla δόξα, all’opinione, la quale non si basa su una verità ferma e necessaria, ma sulla contingenza, sull’indecisione tra essere e niente, anzi proprio perché l’ente contingente è indeciso, è compagno di entrambi[13]. La sfera dell’opinione è il divenire, in cui l’ente nasce (entra nell’essere) e perisce (ritorna nel nulla). Da ciò si deduce che con l’ε̉παμφοτερίζειν non si apre la sfera dell’ente in quanto ente, ma dell’ente in quanto diveniente[14]. Ma, a sua volta, questo comporta che quando Platone parla dell’ente immutabile, egli non lo intende tale in quanto ente, ma in quanto un certo ente, l’idea; la quale in primo luogo non è un ente sensibile, ossia soggetto al processo del divenire. L’ente in quanto ente non è immutabile per definizione, perché altrimenti ogni ente sarebbe immutabile ed eterno. Il che ci fa dire che l’ente in quanto ente è indeciso tra l’essere e il niente, la sua dimensione è l’ε̉παμφοτερίζειν, conteso tra l’uno e l’altro. Se da una parte per Platone la cosa non è un niente, dall’altra può non essere, ossia essere un niente. Grazie a Platone la metafisica si fonda inconsciamente sul nichilismo, su quel pensiero che consciamente nega che la cosa sia niente, ma inconsciamente identifica la cosa col niente. Il carattere inconscio del nichilismo si evidenzia dal fatto che, per Platone, se da una parte una cosa che “è niente” è inconoscibile, si pone comunque che una cosa possa non essere, in sostanza non avverte la necessità che l’impossibilità di conoscere una cosa nientificata sia innanzitutto dovuta all’impossibilità che una cosa (un non-niente) non sia. È proprio nel non cogliere questa necessità che il pensiero occidentale si erige nella sua essenza. L’ente si trova in una dimensione indecisa, tra l’essere e il niente, in un’oscillazione che non ha fine. Non a caso per Platone l’ente è immutabile non in quanto ente, ma in quanto idea; ciò vuol dire che l’ente in quanto ente (non semplicemente l’ente diveniente) è indeciso (ε̉παμφοτερίζειν) tra l’essere e il niente. Se però ci chiediamo cosa intenda Platone come anche Aristotele per divenire, constatiamo che esso non è interpretato come passaggio dal puro essere al puro niente, al niente assoluto. Ad esempio, nella costruzione di una casa, l’ente particolare che sarà quella casa così fatta non è ancora, ma i materiali che la compongono erano prima che la casa venisse costruita. Ciò che esce e ritorna nel nulla non è tutto l’ente ma la sua unità, il suo essere un unicum. Questo è certamente in contrasto con il principio della sostanza di Aristotele, per cui è la sostanza, appunto l’unità di ogni ente ad essere immutabile, mentre sono i suoi attributi a mutare. Eppure l’unità della casa, di una casa, prima che venga costruita non è. Se andiamo più in profondità si constata che anche i materiali di un’unità sono a loro volta prodotti o per natura o grazie all’operato dell’uomo, il che ci porta a dire che anche la materia esce e ritorna nel nulla. In sostanza Aristotele, pur ammettendo che ogni cosa è un non-niente, asserisce anche che ogni cosa oscilla tra l’essere e il niente; se quindi ammette che la cosa “è”, è inseparabile dal suo essere, dall’altra uscendo e ritornando nel niente, ciò che in realtà subisce tale processo è il suo essere, il suo non essere un niente: il fondamento inconscio dell’Occidente è quello di identificare il non-niente col niente, il positivo col negativo. È questa la follia che l’Occidente non vede, ma ha sempre perseguito: dire che la cosa è un ente, ossia è legata all’essere e che la cosa come tale esce e torna nel niente, significa dire che l’essere è niente, appunto il positivo è il negativo, che è di per se stesso impossibile, perché identifica gli opposti, ciò che per essenza non possono mai identificarsi. Ecco l’essenza del nichilismo: essa non sta nella testimonianza dell’estrema contrapposizione dell’ente e del niente, ma nel non tenersi fermo ad essa, dissolvendo tale contrapposizione nel proprio inconscio[15]. La contrapposizione autentica dell’ente e del niente è possibile solo se l’ente viene considerato come una totalità, e, a sua volta, tale totalità appare solo se in tale apparire non vi è nulla al di fuori di essa, solo se tutto l’ente è eternamente separato dal niente. Solo quando il niente è inteso come contrapposizione ad una “certa parte” dell’ente, e non come nulla assoluto, il nulla si pone come un τι, appartenendo esso stesso alla totalità dell’ente. Ponendo la possibilità di un niente relativo che non è l’opposto dell’ente, ma l’altro dell’ente, anch’esso quindi un ente, Platone fonda i presupposti del pensiero nichilistico. Infatti, da Plotino ad Heidegger l’Occidente userà il concetto di nulla relativo per individuare la differenza tra essere ed ente: l’essere è il nulla, perché è l’altro dell’ente.
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